SERVIZI

AUTISMO? NO PROBLEM

AUTISMO: OGNUNO DI NOI E’ UN ARCOBALENO DI INFINITE POSSIBILITA’

FONTE: www.culturautismo.it

“Con la denominazione di “Spettro dell’Autismo” si indica oggi una condizione che caratterizza alcuni individui fin da bambini. Questa condizione viene spesso più brevemente definita Autismo ma sarebbe più corretto parlare di Condizioni dello Spettro dell’Autismo. Pur essendo molto variabili, le caratteristiche dello spettro autistico riguardano tre aree fondamentali per lo sviluppo di ogni persona: l’area sociale e relazionale, quella comunicativa e quella degli interessi. Per la particolarità che contraddistinguono le persone dello spettro autistico, si usa indicare le tre aree dello sviluppo implicate  nel disturbo come “triade sintomatologica”.

La presenza delle caratteristiche nelle tre aree può essere invalidante per i bambini che mostrano in maniera più marcata i sintomi dell’Autismo ed abilità differenti e deficitarie rispetto a quelle dei coetanei senza sintomi. Quando i deficit nelle tre aree compromettono l’adattamento di un individuo, viene posta generalmente una diagnosi che colloca la persona all’interno dello spettro autistico, ovvero viene posta una diagnosi di Disturbo Generalizzato dello Sviluppo, secondo la classificazione internazionale ICD 10, oppure una diagnosi equivalente, di Disturbo Pervasivo dello Sviluppo, secondo la classificazione del DSM IV TR. Tale diagnosi rappresenta la “cornice” all’interno della quale vengono collocate le caratteristiche di persone anche molto diverse fra loro, che possono ricevere “etichette” diagnostiche specifiche e differenti, a seconda delle particolarità dei sintomi e delle abilità.

Il più noto fra i disturbi dello sviluppo, è l’Autismo, denominato anche Disturbo Autistico, o, in maniera parzialmente fuorviante – in quanto esordisce in età infantile, ma perdura in età adulta – Autismo Infantile. Accanto all’Autismo, viene considerato un disturbo generalizzato o pervasivo dello sviluppo anche la Sindrome di Asperger, che si differenzia dall’Autismo essenzialmente per le buone capacità linguistiche delle persone che ricevono la diagnosi, che mostrano anche un livello intellettivo nella norma, e, generalmente, una minore problematicità dei sintomi tipici dell’Autismo.

Quando le caratteristiche delle tre aree non appaiono clinicamente rilevanti – ovvero quando la persona mostra un buon adattamento e buone capacità intellettive – la neurodiversità della persona, in condizioni sociali favorevoli, non dovrebbe essere considerata una patologia. Al momento attuale, numerose persone con una neurodiversità sono in grado di parlare della propria condizione, per la quale richiedono riconoscimento e rispetto. È dai resoconti di queste persone che viene la maggior parte delle informazioni sulle particolarità sensoriali e cognitive dell’Autismo.

In effetti, nel mondo scientifico ci si chiede se l’Autismo a basso funzionamento e la Sindrome di Asperger siano effettivamente collocati lungo lo stesso continuum: il confine fra neurodiversità, Sindrome di Asperger ed Autismo ad alto funzionamento non è al momento del tutto definito e non è chiaro quanto queste condizioni siano rappresentative di altre maggiormente invalidanti. Anche le cause dell’Autismo sono al momento sconosciute, sebbene nella comunità scientifica vi sia la diffusa convinzione, basata su evidenze sperimentali, che si tratti di un disturbo di tipo neurobiologico, con una probabile base genetica multifattoriale. In effetti, per quanto la produzione scientifica sull’Autismo sia vastissima, bisogna considerare che permane una condizione di disaccordo – particolarmente presente in ambito italiano, minore in contesti di cultura anglosassone – sulle caratteristiche, sulle cause, e sul trattamento dei Disturbi dello Spettro Autistico.

Per comprendere tale disaccordo, è necessario considerare che la storia dell’Autismo è piuttosto recente, e prende avvio da considerazioni molto distanti da quelle attuali, in particolare sulle cause dell’Autismo. Fin dalla prima descrizione dei sintomi, negli anni ’40 del secolo scorso, l’accento è stato posto sulla responsabilità delle famiglie nella genesi del problema. Le madri dei bambini con Autismo sono state indicate per decenni, e a volte lo sono ancora, come le maggiori responsabili delle difficoltà del figlio. Il dolore provocato da queste accuse si è sommato negli anni alla difficoltà ad ottenere informazioni su come intervenire per aiutare il bambino, e all’opera di persone senza scrupoli, che hanno trovato nelle famiglie colpite un fertile mercato della disperazione.

Fortunatamente, al momento attuale, le teorie legate alla patologia materna sono considerate del tutto infondate dalla comunità scientifica internazionale, che orienta la ricerca sperimentale verso altre ipotesi, per quanto riguarda sia l’eziologia sia le condizioni cognitive ed affettive delle persone nello spettro (ad esempio: il ruolo dell’empatia e il legame di questa con i neuroni specchio).La relazione fra professionisti e genitori si è fortemente modificata negli ultimi venti anni. Da un lato, i genitori sono molto più informati di quanto avveniva in passato, sono in grado di rivolgere ai professionisti richieste precise, e sono organizzati in associazioni. Dall’altro lato, i professionisti riconoscono ai familiari un ruolo di collaborazione e di scambio, che si concretizza nel parent training e nei gruppi di aiuto. I gruppi di formazione o di aiuto, che coinvolgono genitori o fratelli, sempre più spesso sono sollecitati o organizzati dagli stessi genitori, e contribuiscono alla diffusione di una “cultura dell’autismo”. È questa diffusione culturale – sulle caratteristiche, sulle cause e sulle possibilità di intervento – che appare il motore più forte per una reale inclusione delle persone dello spettro autistico nella vita sociale.

Rispetto al trattamento dei sintomi e delle disabilità legate alla diagnosi, benché nella comunità scientifica non si discuta di “guarigione”, si osservano in misura crescente condizioni di miglioramento tali da incoraggiare fortemente l’avvio, più precoce possibile, di un intervento specifico per i bambini diagnosticati. Per effetto di diverse variabili, la popolazione delle persone con le caratteristiche dello spettro appare oggi estesa a bambini, adolescenti ed adulti che mostrano particolarità talmente sfumate da garantire loro una esistenza non differente da quella di tutti gli altri.

La domanda che ogni genitore si pone è dunque: “quale intervento?”. La risposta a questa domanda non è semplice, per diversi motivi legati all’organizzazione dei servizi, ma anche perché le particolarità di ogni persona dello spettro rendono l’argomento molto complesso. Per cercare di rispondere, è possibile ricorrere alle clinical evidence, che indicano gli interventi al momento sottoposti a sperimentazioni controllate e maggiormente promettenti, come il Denver Model, l’intervento comportamentale e il programma TEACCH.

La ricerca sperimentale e le clinical evidence aiutano i professionisti a rendersi conto della necessità di adottare le linee guida per l’Autismo già elaborate in ambito nazionale ed internazionale, che si ispirano ed accompagnano una vastissima letteratura specialistica, facilmente reperibile, e in parte accessibile anche in italiano attraverso i testi che costituiscono la bibliografia italiana ai Disturbi dello Spettro Autistico. Le linee guida appaiono al momento come qualcosa di potenzialmente perfettibile, e sicuramente soggette a costanti adattamenti alla rapidissima evoluzione della letteratura specialistica, ma forniscono una base di discussione e confronto. Sebbene in Italia siano state promosse da una particolare categoria professionale (quella dei neuropsichiatri infantili) e non vengano condivise da tutti i professionisti, le linee guida per l’Autismo chiariscono oggi come dovrebbe avvenire il processo di valutazione e diagnosi dell’Autismo offrendo a professionisti e genitori la possibilità di condividere un linguaggio sui sintomi dell’autismo e di confrontare gli strumenti clinici usati da medici, psicologi, educatori e riabilitatori.

La condivisione di linguaggi e strumenti appare di importanza fondamentale, perché è solo a partire da questa che è possibile identificare le caratteristiche di un buon intervento psicoeducativo. L’intervento psicoeducativo rappresenta la modalità di trattamento a disposizione di insegnanti, educatori, riabilitatori e genitori che ha mostrato, nei decenni, la maggiore solidità. Il “segreto” della solidità dell’intervento psicoeducativo sta nei principi a cui si ispira, ovvero nell’individualizzazione, nella flessibilità, nel coinvolgimento di tutti i caregiver e in particolare dei familiari, nel rispetto della persona e della sua famiglia, nell’adattamento dell’ambiente fisico e relazionale alle caratteristiche della persona, e nell’adozione di modalità di intervento di rete, ispirate agli approcci cognitivi e comportamentali.

Caratteristica degli approcci cognitivi e comportamentali è quella di mantenere un atteggiamento sperimentale, controllando in maniera rigorosa le variazioni che l’intervento produce, ovvero, in pratica, dando un particolare rilievo alla componente valutativa. Con una finalità di costante raffronto, la valutazione sintomatologia viene affiancata ad una valutazione normativa ma soprattutto ad una valutazione funzionale. I tre tipi di valutazione vengono effettuati con strumenti adeguati in situazioni controllate, e ripetuti nel tempo, insieme alla valutazione dei comportamenti problematici , per verificare quali siano i cambiamenti mostrati dalla persona, e, in situazioni ulteriormente controllate, quali siano i cambiamenti prodotti dall’intervento.

Gli approcci cognitivi e comportamentali ai disturbi dello sviluppo assumono generalmente un’ottica funzionale, ovvero un’ottica che mira all’acquisizione di abilità funzionali, “spendibili” in età adulta per la maggiore indipendenza possibile della persona. Benché l’ottica funzionale (anche definita “ecologica”) sia dominante negli approcci cognitivi e comportamentali, con i bambini più piccoli (al di sotto dei tre anni, ad esempio) si preferisce partire adottando il più possibile una prospettiva “evolutiva”, ovvero una prospettiva che tenga conto dello sviluppo tipico, così come delle particolarità della triade, e che miri ad avvicinare il bambino piccolo, per quanto è possibile, allo sviluppo tipico.

Nella prospettiva evolutiva, un intervento sull’intersoggettività, con il coinvolgimento dei caregiver naturali del bambino, appare fondamentale. Con il bambino piccolo, dunque, viene affrontato essenzialmente un intervento sulle componenti della relazione e sul gioco, oltre che sui sintomi mostrati nella situazione di valutazione e sulle abilità funzionali.

In effetti, l’intervento sul gioco deve essere proseguito per tutta l’infanzia, e continuare con un aiuto alla gestione del tempo libero per gli adolescenti e gli adulti, in quanto l’acquisizione di abilità funzionali, di gioco come di lavoro, contrasta l’evoluzione dei sintomi della terza area della triade sintomatologica, quella che riguarda i comportamenti e gli interessi ristretti e ripetitivi. Attraverso l’intervento sul gioco, inoltre, vengono poste le basi per il miglioramento delle capacità di comunicazione e di relazione. Il miglioramento delle capacità di comunicazione costituisce un’altra finalità fondamentale dell’intervento. È noto che alcune persone con Autismo parlano, mentre altre non lo fanno. Le difficoltà presenti nell’area della comunicazione, però, non si limitano alle difficoltà nel linguaggio verbale, ma coinvolgono tutto l’ambito comunicativo. Per questo motivo, le persone con un disturbo dello sviluppo necessitano di aiuto per il miglioramento di tutte le componenti sociali e comunicative, a partire dalle più semplici, come prestare attenzione all’interlocutore, per arrivare alle più complesse, come cogliere significati impliciti durante le conversazioni.

Per le persone che non comprendono o non utilizzano il linguaggio parlato, sono state negli ultimi anni adottate con successo modalità di comunicazione aumentativa che aiutano la persona ad anticipare e comprendere gli eventi, così come ad esprimere preferenze e necessità, in maniera semplice e concreta, generalmente attraverso una visualizzazione dei diversi contenuti comunicativi. Di prioritaria importanza nella scelta degli obiettivi è anche l’intervento volto a colmare le difficoltà sociali e relazionali. Il lavoro sulle abilità sociali parte dall’intervento sull’intersoggettività nei bambini piccoli, e può arrivare a comprendere componenti comportamentali, cognitive ed affettive molto complesse, per i bambini più grandi. Anche le persone adulte con un disturbo dello spettro ed un alto funzionamento hanno spesso bisogno di aiuto per formarsi delle idee su cosa pensa in genere un interlocutore e su come si sente, migliorando le reazioni empatiche e mostrando un miglior adattamento rispetto ad affettività e sessualità.

Le basi per l’intervento psicoeducativo dovrebbero essere poste in ambito scolastico, a partire dalla scuola materna. L’integrazione scolastica non dovrebbe fermarsi al trasferimento di abilità cognitive e curricolari, comunque fondamentali per la crescita di ogni bambino, né a collocare il bambino con Autismo all’interno del gruppo di coetanei. Al contrario, la scuola dovrebbe rappresentare il primo luogo di crescita del bambino, dopo quello domestico, ed occupare un posto speciale nella rete di interventi intorno al bambino. La scuola dovrebbe occuparsi anche di garantire al bambino la formazione di una buona autostima e di quelle competenze che dovrebbero servirgli, una volta adulto, ad integrarsi concretamente nel tessuto sociale, come le abilità di autonomia personale e l’avviamento al lavoro. La possibilità di effettuare un’attività lavorativa produttiva, insieme ad una buona condizione abitativa ed alla possibilità di gestire il proprio tempo libero, è una delle condizioni da prevedere in maniera prioritaria per la maggior parte degli adulti. Esperienze condotte in altri Paesi dimostrano che le persone con un disturbo dello sviluppo possono e devono lavorare, e questo rende così importante la job education da far sì che le abilità prerequisite al lavoro indipendente vengano incluse nei programmi ispirati agli approcci cognitivi e comportamentali fin dall’inizio della frequenza scolastica.

Quello che appare importante dunque per le persone dello spettro autistico, e per le loro famiglie, è che venga garantita loro una buona qualità della vita, gli stessi diritti di tutti e un rispetto speciale per loro caratteristiche, ormai non più così invisibili come fino ad alcuni anni fa. Per i professionisti e per le famiglie coinvolte, c’è dunque tanto da fare: oggi si ritiene indispensabile che, per ogni persona con un disturbo dello spettro autistico, venga elaborata una programmazione “proattiva”, che preveda un concreto passaggio di abilità alla persona e ai suoi caregiver, con uno sguardo a quello che sarà la futura vita di adulto della persona. Una posizione che si fermi all’intervento sui comportamenti problematici non è più giustificabile, e tutti i professionisti che si occupano di Autismo devono imparare a non limitare la loro competenza ai tentativi di impedire le espressioni più problematiche dei sintomi.

Non ci sono scorciatoie,  né “pacchetti” preconfezionati di soluzioni miracolistiche. Per gli operatori, i genitori e le persone colpite la strada non è facile, ma le prospettive sono tutt’altro che prive di speranze.”

Torna in alto